giovedì 6 novembre 2014

Gestione del territorio: storia di un fallimento

RELAZIONE del GRUPPO di LAVORO dell'Ass. DIRITTI E DOVERI su:
“A che cosa è servita tanta programmazione territoriale?”.




LA GESTIONE DEL TERRITORIO: STORIA DI UN FALLIMENTO

Quando in Europa sul finire degli anni “30 soffiavano i gelidi venti dei regimi autoritari, e la nostra penisola non è stata certamente immune da tali eventi, l’Italia, fra le poche in Europa e nel resto del mondo, si distingueva per un atteggiamento del tutto moderno e democratico nella gestione del territorio.
Le devastazioni che avrebbe comportato il conflitto mondiale prossimo venturo all’assetto del territorio, e con questo alle città, ai borghi storici, alle campagne ed alle strade esistenti, che fino a quel momento caratterizzavano l’assetto insediativo ed infrastrutturale la nostra penisola, non erano neanche minimamente immaginabili.
Quand’anche, ben presto, si ebbe la certezza che i venti di guerra avrebbero in qualche modo coinvolto in profondità gli italiani, chiamati a combattere fuori dalle proprie terre, e la convinzione di essersi imbarcati in una progetto folle cominciò a fasi largo nelle coscienze degli italiani spodestando l’arroganza fascista che ormai da un ventennio si era fatto largo nelle masse acritiche, mai si sospettò minimamente che anche l’Italia avrebbe potuto divenire essa stessa il teatro di una delle più feroci e stupide guerre, anche fratricide, della storia recente dell’umanità.
E nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quella devastazione avrebbe in seguito dato origine, dalla fine delle guerra agli anni successivi, alla più grande trasformazione in negativo del territorio italiano attraverso un insieme convulso e irregolare di interventi edilizi ed infrastrutturali che avrebbero cambiato per sempre l’assetto dei nostri luoghi.
Sarebbero sorte le periferie intorno alle grandi città. Polipi dai lunghi tentacoli. Cancri urbani. Sarebbero stari ricostruiti interi isolati multipiani in luogo delle palazzine di pochi piani abbattute dalle bombe. Sarebbero sorte le baraccopoli. Sarebbero state costruite nuove strade, ponti e gallerie talvolta senza logica e solo per interesse privato. E poi fabbriche e poi ancora strade e nuove case.
Nessuno sul finire degli anni “30 avrebbe mai immaginato di poter scattare una fotografia e di poterlo rifare 30 anni dopo con l’incredibile risultato di non riconoscere più i luoghi originari.
Ma se qualcuno per caso, in fondo a quell’abisso in cui stava per cadere l’Italia, avesse avuto l’intuito di poter solo lontanamente sospettare quale corso avrebbero preso gli eventi, quale possibile soluzione avrebbe potuto ipotizzare con i mezzi di cui disponeva allora?
Nessun problema”, avrebbe osato affermare.
Nessun problema, perché nonostante tutto, in quell’Italia, già zeppa di contraddizioni, una nota non stonata però sembrava davvero esserci.
Si, perché l'Italia nel 1939 era uno dei pochi Stati che, in assoluto anticipo sui tempi, si erano già dotati di due leggi fondamentali sulla tutela dell'ambiente e del patrimonio storico edilizio: la legge 1497 sulla tutela delle bellezze d'insieme e dei sistemi paesaggistici e la legge 1089 sulla salvaguardia dei monumenti. Inoltre, da lì a tre anni, esattamente nel 1942, si sarebbe dotata anche della legge fondamentale dell'urbanistica: la legge 1150, che, anch’essa in grande anticipo sui tempi, dettava norme sull'obbligatorietà posta in capo ai Comuni di dotarsi di un Piano Regolatore urbanistico, ovvero di uno strumento urbanistico che regolasse lo sviluppo delle città e stabilisse regole ben precise sul costruito e sull'edificato futuro che avrebbe interessato il resto del territorio.
Com’è strana l’Italia!
In un'epoca piena di ombre dove addirittura si facevano, si approvano e si applicavano leggi finalizzate a differenziare le razze, a esaltarne in modo ignobile e disumano alcune rispetto ad altre, introducendo pregiudizi aberranti e fuori da ogni elementare concetto democratico e di libertà, su un altro binario, quasi del tutto opposto, c'era un'altra Italia che invece stava cercando di tutelare, per il bene comune, parti del territorio dalle possibili trasformazioni che l'uomo moderno avrebbe potuto arrecare, introducendo norme di tutela e regole sul costruito, a beneficio di tutti, indistintamente.
Com’è strana l’Italia!
Dunque gli strumenti per ricostruire l’Italia dopo la grande tragedia della seconda guerra mondiale c’erano già tutti. Bastava applicarli.
Ma allora perchè la ricostruzione non ha seguito quelle regole?
Perchè sono state applicate solo in alcune parti del territorio?
Avevano forse un difetto quelle leggi?
Come la gran parte delle leggi italiane, in quelle leggi c'era un rimando. L’inevitabile rimando che contraddistingue il sistema giuridico italiano, dove la buona norma, quella consolidata dall’uso comune costituisce giurisprudenza, come nei paesi anglosassoni, di fatto non esiste o è sopraffatto dal “burocratese”!
Se da un lato l'applicazione della nuova legge urbanistica (la legge 1150/1942) su tutto il territorio comunale restava solo una facoltà (sarebbe divenuta un obbligo solo nel 1967 - ben 25 anni dopo! - quando la ricostruzione era ormai già avvenuta nella sua interezza), dall'altro l'applicazione delle leggi ambientali, eccezion fatta per i monumenti ed alcuni sporadici decreti che hanno tutelato solo alcune parti del territorio nazionale, sarebbe stata rinviata a successivi provvedimenti che hanno cominciato a prendere corpo solo nel 1985 con il decreto Galasso.
Il 1985! Già, il 1985!
Più di 45 anni dopo!
Se pensiamo che quell'intervallo di tempo racchiude di fatto gli anni in cui il volto dell'Italia è cambiato definitivamente è facile immaginare quanto e come l'Italia sia stata depauperata di alcune bellezze naturali che invece avrebbero potuto essere salvaguardate sin da subito e come, di contro, l’urbanizzazione di gran parte del territorio italiano sia potuto avvenire liberamente alla mercè di chi aveva tutto l’interesse di capitalizzare il territorio a scopi privatistici e non di salvaguardarlo per il bene comune.
E' sufficiente pensare alle innumerevole costruzioni realizzate in alvei fluviali o nelle vicinanze delle loro sponde. Infatti una delle norme ambientali, mai poste in essere fino al 1985, prevedevano proprio che le nuove costruzioni previste entro una fascia di rispetto di 150 metri (per lato) lungo le acque pubbliche dovessero essere preventivamente autorizzate sotto il profilo ambientale.
Quante di queste costruzioni (abitazioni, capannoni, anche scuole o altri servizi in genere) lo sono state?
E quante di queste oggi sono state interessate da fenomeni alluvionali o si trovano in aree a rischio idrogeologico?
Quanti sono i danni subiti dagli utilizzatori di tali manufatti e quanti sono inoltre quelli sostenuti dalla pubblica collettività per risanare ogni volta le criticità che si sono ripetute nei corso degli anni, soprattutto gli ultimi, a seguito di alluvioni, esondazioni, frane o quant'altro?
E così arriviamo al 1967.
Sono ormai trascorsi più di 25 anni dall'uscita delle leggi urbanistiche ed ambientali. Il boom edilizio ed economico è in pieno atto. Le città si sono trasformate. Altre lo stanno ancora facendo. Alcune seguendo i primi Piani regolatori del dopo guerra, altre in modo convulso ed irregolare, dando origine a periferie con la sola funzione di inscatolare gente come sardine, prive di ogni servizio comune e di conseguenza fonti di criticità di natura sociale.
Ma per fortuna alla fine degli anni “60 gran parte del territorio è ancora immune dalla speculazione edilizia.
Siamo ancora in tempo”. Verrebbe da esclamare. Serve una legge. Una legge che regolamenti l'obbligatorietà che ad ogni metro cubo in più di costruito corrisponda un ben determinato e corrispondente spazio o servizio pubblico (servono scuole, spazi verdi attrezzati pubblici, strade e una rete di servizi di collegamento pubblico, parcheggi pubblici, servizi pubblici, etc.).
In proposito uscirà un Decreto Ministeriale nel 1968.
Serve poi una legge che estenda l'obbligatorietà di regolamentare l'espansione edilizia anche su tutto il resto del territorio.
In proposito uscirà la cosiddetta legge Ponte nel 1967.
Ecco, finalmente, dopo le leggi del 1939 e del 1942, che hanno fatto la teoria, ora gli strumenti operativi ci sono.
Ma anche stavolta le leggi non impongono obblighi di tempistiche e così siamo nuovamente punto e a capo.
Intorno all’edilizia ruotano interessi enormi. Dov’è l’interesse a limitarne l’uso ed il consumo?
Così tutto va al rallentatore e le istituzioni sembrano avvallare responsabilmente tale andamento.
I Comuni un poco alla volta cominciano a dotarsi dei primi Piani Regolatori estendendo la regolamentazione su tutto il loro territorio, ma a farlo, a partire dagli anni 70, sono in pochi. Intanto il boom edilizio assorbe nuova linfa.
Ormai siamo agli inizi degli anni "80. Una nuova stagione per l'edilizia. Quella industriale. Quella in serie. Quella più pericolosa. Quella dove la speculazione comincia a lasciare impronte indelebili. Quella che graffia le colline. Quelle che pianta fondazioni di cemento in zone esondabili. Quella che fa assumere alle periferie la forma di alveari impazziti. Quella che comincia ad interessare anche le campagne e le colline dei centri minori.
Confrontate una fotografia del nostro territorio degli anni “60 e rapportatela con alcune fotografie della fine degli anni “80. E' sufficiente soffermarci sulla bassa piana della Magra. Da Massa alla Spezia.
Un vero e proprio processo di conurbazione (termine coniato dal grande urbanista e sociologo inglese Patrick Geddes) ha interessato tutta la piana.
Conurbazione significa essere andati oltre il processo di urbanizzazione. Significa non avere più uno spazio libero, ma una sola ed unica edificazione continua e sistematica.
Significa, per i nostri luoghi, avere per sempre cancellato la maglia dell'antica centuriazione romana che aveva caratterizzato e delineato l'assetto del nostro territorio per oltre 2000 anni.
Ma ormai è troppo tardi. Il dado è tratto.
Nel 1985 quando ormai molti Comuni cominciano ad essere a regime ciascuno con il proprio Piano Regolatore operativo, il peggio ormai è stato fatto. Le colline sono state sventrate. Il loro assetto idrogeologico indebolito. Le piane sono state occupate. Il corso dei fiumi ristretto. Il deflusso delle loro acque limitato o occluso. Il cemento intanto ha ridotto le aree permeabili. Gli storici canaletti di scolo sono stati sbarrati o ricoperti.
Una sola domanda affligge il legislatore urbanistica nel 1985: cosa fare di tutte queste migliaia di costruzioni realizzate in assenza di regole precise?
Abbatterle?
Abbatterle o sanarle?
Sanarle! Ecco la giusta soluzione. Ecco la soluzione più semplice. Ecco l’ennesimo errore.
Inizia la stagione dei condoni. Dapprima con un provvedimento straordinario, ma poi con cadenza regolare. Il condono raccogli consensi, si sa! Consensi immediati. Il contrario del conto che sarà loro presentato anni ed anni dopo, quando le mutate condizioni climatiche devasteranno i luoghi impunemente occupati dall’uomo.
Nel 1985 esce la legge fondamentale sull'edilizia che inasprisce le sanzioni penali in materia di abusi edilizie, ma che, allo scopo di fare un punto zero, in realtà da il via alla stagione dei condoni edilizi.
Condoni che da quella data si sono succeduti con una sconcertante ripetitività temporalità.
Ogni 9 anni! Esattamente ogni 9 anni ne esce uno.
Il primo nel 1985
Il secondo nel 1994
Il terzo nel 2003
Il quarto, latente ed ancora sotterraneo, ma destinato a diffondere i suoi effetti nel prossimo futuro, concretizzato nella sanatoria catastale introdotta con una normativa del 2012 (sempre dopo nove anni!)
9 anni. Esattamente il tempo necessario affinché una pratica di abuso edilizio possa tranquillamente percorrere indenne tutto le fasi giudiziarie dal classico ricorso al TAR, attraverso l'appello ed in ultimo il ricorso al Consiglio di Stato.
Ora la domanda che sorge spontanea è: a cosa è servita la strumentazione urbanistica che avrebbe dovuto regolamentare, contenere e riqualificare lo sviluppo urbanistico del nostro territorio?
Ha senso nel 2014 incattivirsi con il funzionario di turno o il Sindaco in carica che deve garantire la sicurezza di milioni di abitazioni costruite in luoghi che per loro natura e vocazione erano invece deputati a contenere il deflusso delle acque o che per fragilità geomorfologica non erano assolutamente propensi a ospitare nuove edificazioni?
Ha senso indignarsi con un Sindaco appena eletto che si ritrova ad affrontare di continuo situazioni di emergenza dovute, si alle mutate condizioni climatiche ma anche e soprattutto ad una scellerata gestione del territorio condotta in modo continuato ed indiscriminato negli ultimi 50 anni?
Chi deve realmente essere condotto sul banco degli imputati?
E quali interventi devono essere assunti oggi per riparare a questi danni?
La storia esige dei responsabili. La storia, quella vera, è questa. E’ fatta di fatti. E’ fatta di nomi. Ed i nomi ci sono tutti. Sono scritti sulle leggi che si sono succedute in Italia negli ultimi 50 anni.
Poi fatto questo, scritta la pagina ed assegnate le responsabilità, occorre voltarla quella pagina. Voltarla e ripartire. Questa volta con l’approccio giusto.
Consegnamola questa Italia a chi è indenne da lobby o giochi potere. Facciamolo con fiducia. Voltiamo le spalle agli intrighi di potere. C’è molto da salvare ancora. C’è da intervenire con rapidità inaudita. C’è da preparare bende e medicine. Ci sono diagnosi da redigere e cura da seguire. Il nostro territorio può essere curato solo dalla conoscenza della storia e di quello che è stato.
C’è da pagare il conto. E quelli che hanno mangiato finora lo hanno lasciato da pagare alle nostre generazioni. C’è da vergognarsi. Dobbiamo imparare a farlo. Perché a farci vergognare non sono stati i nostri nonni, che per l’Italia sono morti, ma la generazione successiva, che è cresciuta nel benessere ed a pensato che fosse cosa dovuta.
C’è una nuova generazione da crescere e sulla credere e sperare.
Il nostro territorio va amato e non violentato.


LA PIAGA DEI CONDONI EDILIZI ?
DAL 1985 AL 2003 SI SONO SUSSEGUITI 3 CONDONI EDILIZI !!!

L’ECCESSIVA BUROCRAZIA NORMATIVA?
MOLTE NORME SI CONTRADDICONO FRA DI LORO E RISULTANO DI DIFFFICILE APPLICAZIONE


LA SCARSA COMUNICABILITA’ FRA AMMINISTRAZIONI DELLO STATO, DELLA REGIONE, DELLA PROVINCIA E LOCALE?
LE AMMINISTRAZIONI CENTRALI NON CONOSCONO I VERI PROBLEMI CHE AFFLIGGONO LE AMMINISTRAZIONI LOCALI

LA MANCANZA DI UNO STRUMENTO DI PIANIFICAZIONE MODELLO PER TUTTI I COMUNI CHE PARLI UNO STESSO LINGUAGGIO ?
OGNI COMUNE E’ DOTATO DI UN PIANO URBANISTICO CHE PARLA UN LINGUAGGIO DIVERSO RISPETTO AL COMUNE LIMITROFO

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